Tra le poche cose che fanno di Matteo Messina Denaro un uomo in carne e ossa e non un fantasma c’è un carteggio. Risale ad alcuni anni fa, ma offre, ancora oggi, una delle rare opportunità per entrare nella mente del boss latitante. Per provare, nel giorno del suo cinquantaquattresimo compleanno, a capire come riesca a fuggire ormai da 23 lunghi anni.
Se c’è qualcosa che lo manda su tutte le furie sono gli errori, le leggerezze che possono costare caro. Figuriamoci se a commetterli è stato uno come Bernardo Provenzano. Al momento del suo arresto, il capo si era fatto trovare con una pila di pizzini, alcuni dei quali a firma “Alessio”, lo pseudonimo di Messina Denaro.
“La devo informare di alcune vicende accadute. Come lei sa a quello hanno trovato delle lettere. In particolare delle mie pare ne facesse collezione. Non so perché ha agito così e non trovo alcuna motivazione”: scriveva così nel giugno del 2006 il boss trapanese a Svetonio, e cioè l’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino. Al suo nome si era risaliti perché veniva citato nei pizzini trovati a Provenzano nel covo di Montagna dei cavalli. L’inchiesta per mafia nei confronti del politico venne archiviata. Anni dopo si sarebbe scoperto che Vaccarino era stato assoldato dai servizi segreti per stanare il latitante. Fra Alessio e Svetonio ci fu una lunga corrispondenza fra il 2004 e il 2006. Le lettere di Alessio erano state scritte dalla stessa mano che aveva firmato quelle trovate nel covo di Montagna dei cavalli e attribuite a Messina Denaro. Stessa mano ma contenuti che sembravano pensati da persone diverse.
Il capo della mafia trapanese si fidava di Svetonio che era stato amico del padre, Ciccio Messina Denaro. A lui aveva deciso di confidare il suo stupore e di attribuirgli il nome in codice per evitare che si potesse risalire alla sua vera identità: come era potuto accadere che un personaggio del calibro di Provenzano avesse messo nelle mani dei poliziotti le lettere, sue e di altri boss. Proprio lui, che aveva fatto della prudenza la regola vincente per diventare l’inafferrabile capo di Cosa nostra.
Le lettere di allora tracciavano un ritratto del boss che non sappiamo quanto corrisponda a quello di oggi. Un boss che amava il lusso, le belle donne, gli affari milionari, e s’interessava di cultura e politica. Ed anche uno stratega. A una precisa strategia, infatti, rispondeva con tutta probabilità la scelta di non scrivere le lettere di suo pugno anche se una serie di riferimenti portavano inequivocabilmente a lui. Uno psicologo incaricato dalla polizia di studiare le sfaccettature della personalità del boss, leggendo tra le righe di quella corrispondenza, ipotizzò che un misterioso scrivano elaborasse i suoi pensieri su commissione. Messina Denaro gli affidava le sue riflessioni e lui le elaborava in modo articolato, ricco di citazioni, colto.
Messina Denaro parlava anche di politica: “Oggi per essere un buon politico basta che faccia antimafia, più urla e più strada fa, ed i politici più abietti sono proprio quelli siciliani che hanno sempre venduto questa nostra terra al potente di turno. Troppo semplicistico per lo stato italiano relegare il fenomeno Sicilia come un’orda di delinquenti. Abbiamo più storia noi che questo stato italiano”.
Si rammaricava del fatto di non avere potuto studiare: “Io qualche rimpianto nella vita ce l’ho. Il non avere studiato è uno di essi. E’ stato uno dei più grande errori della mia vita. La mia rabbia peggiore è che ero un bravo studente. Se potessi tornare indietro conseguirei la laurea. Non dico ciò perché avrei voluto un’altra vita, no io sono soddisfatto della vita che ho avuto e la rifarei. Vorrei la laurea solo per me stesso”.
Parlava di fede: “In me in passato non c’è stato niente di soprannaturale e il supremo. Tutto è accaduto al di là della mia volontà. Poi ad un tratto mi accorsi che qualcosa dentro di me si era rotta. Mi resi conto di avere smarrito la mia fede. Mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla, e sto vivendo per come il fato mi ha destinato”. [di Riccardo Lo Verso – Livesicilia.it]