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L’identità della giustizia, trent’anni dopo

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La giustizia è un valore ed un concetto tanto legato all’identità. Se sei una persona giusta, onesta, lo sei, non lo scegli. La disonestà, la prossimità al male, al… “tanto che ci fa”, ti fa schifo. Non scegli di fare il bene. È che il bene fa parte di te. Così sei cresciuto, ed è entrato a far parte della tua mappa cromosomica. Quando sei giusto e onesto “annusi” il puzzo del male, ma hai fiducia nel mondo e nel prossimo e credi che sia possibile un mondo buono. Mi rendo conto che questa parola: “buono” possa assumere un significato semplicistico, che induca il sorriso, quasi la beffa. Ma questo accade perché il male, a partire dall’hate speech dei leoni da tastiera, è divenuto talmente pervasivo che è ritenuto socialmente “normale” e il buono, invece, è quasi sinonimo di scemo.

Io non ho conosciuto personalmente né Giovanni Falcone, né Paolo Borsellino. Ricordo le foto che il papà di una mia compagna di classe (che lavorava in Procura) teneva appese in soggiorno. E ricordo la dedizione con cui le custodiva, come anche alcuni biglietti scritti a mano da Paolo Borsellino. Era già diventato un mito. Un eroe con i baffi e la sigaretta, un filo di fumo che propendeva verso il cielo. Un’allegoria del fatto che qui giù tutto brucia, ma la sua opera era proiettata verso l’alto.

Questa descrizione, che è diventata una concezione comune, però allontana Paolo e Giovanni dalla nostra quotidianità e li rende irraggiungibili, mitici, in quanto eroi.

Eppure essere giusti è una condizione ontologica, che richiede un cuore forte e una determinazione – quella sì – che è in un certo senso davvero sovrumana. Sono passati trent’anni, due repubbliche e mezzo, tanto inquinamento ambientale in più e ora le scene di guerra che ci riportano i tg nell’anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ce le ritroviamo ad ogni tg che parla dell’Ucraina.

Ancora una volta l’abitudine al male diventa normale e invece la giustizia diventa mitologica, lontana. Eppure dopo 1992 le cose sono cambiate molto. Si parla di mafia e il male se svelato si svuota, si impoverisce. Esiste una coscienza di ciò che significa associazione per delinquere, il reato associativo in sé. Ma la giustizia sociale ancora è lontana. Leggendo di Falcone e Borsellino, io scorgo uomini che hanno FATTO incessantemente. Non si sono fermati, sono andati avanti portando il cuore molto oltre gli ostacoli e nel frattempo passavano le stagioni e il Paese cambiava.

Ora c’è più consapevolezza, ma molta più disillusione. La paralisi e la fissità di situazioni di stallo (inclusa la crisi di governo, così come la guerra) che non vedono agire personalità che brillino, che si distinguano dal grigiore e dalla noia generale. Unica cosa che ci scampa da questa melmosa condizione, per come appare a me, sono i bambini. Con loro si deve lavorare presto, affinché nella formazione della propria identità si impregnino di bene, di giustizia, sviluppino empatia per ciò che li circonda e sappiano distinguere il kalos kai agathos (bello e buono) da ciò che è vischiosamente conveniente. Non credo molto nelle redenzioni, a meno che non si tratti di vie smarrite che si ritrovano, ma i modelli devono essere chiari e limpidi. Il lavoro, lo studio, l’impegno sono le uniche vie. Nella pigra imperizia si annida il compromesso. Se nulla sai, né sai fare dovrai essere utile a qualcuno in qualche modo per trovare la tua sopravvivenza. “La mafia teme la scuola più della giustizia” disse Antonino Capponnetto, specie quando la scuola (a più livelli, intesa anche come esperienza di vita) forma ogni individuo nella sua piena umanità.

Chiara Putaggio

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