Coronavirus

Perché crescono le persone che si infettano di nuovo con il Coronavirus

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Molte persone hanno preso Covid-19, a dispetto dell’elevato tasso di vaccinazione in Italia. I vaccini, per quanto efficaci contro la malattia grave, non lo sono altrettanto contro le infezioni. Allo stesso modo neanche aver già preso il coronavirus protegge del tutto dal rischio di riaverlo: può accadere, infatti, di risultare di nuovi positivi dopo aver avuto la malattia.

Un rischio che sappiamo esistere già dai primi tempi della diffusione del coronavirus, quando le reinfezioni venivano considerate abbastanza rare. Oggi così rare non lo sono più, ma è pur vero che da allora la situazione epidemiologica è completamente cambiata, così come l’evoluzione del virus.

Le reinfezioni in Italia – Nell’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità (Iss) sul monitoraggio delle infezioni e dell’efficienza vaccinale si parla infatti di una percentuale di reinfezioni pari al 4,1% di tutte quelle segnalate nell’ultima settimana. Percentuale in crescita rispetto al 3,5% della settimana precedente. Nota: si parla in questo caso di reinfezioni per nuove positività a distanza maggiore di 90 giorni dalla precedente o minore di 90 giorni se con ceppo diverso (se è stata effettuata la genotipizzazione del virus).

I dati dell’Iss si riferiscono essenzialmente al primo caso e il rischio non è lo stesso per tutti: alcune fasce della popolazione sono più colpite di altre, e le donne più degli uomini. Non a caso: la maggior incidenza di reinfezioni nelle donne è spiegabile con una maggior loro presenza in ambito scolastico e come caregiver (condizioni in cui i contatti e gli screening sono più frequenti). Allo stesso modo il rischio aumenta per gli operatori sanitari e i giovani, più a rischio e più attivi socialmente. Ma a maggior rischio di reinfezione sono anche coloro che hanno avuto Covid-19 o che si sono vaccinati da più tempo. A conferma di come la protezione da eventuali infezioni acquisita sia con immunità naturale che vaccinale, che combinata, scemi nel tempo. Anche abbastanza velocemente in alcuni casi.

A livello aneddotico non mancano infatti segnalazioni di nuove infezioni anche a distanza di poco tempo da una precedente positività. Quelle che, secondo la definizione adottata dalla nostra nota ministeriale, sarebbero imputabili dunque a infezioni con ceppi diversi di virus. Non semplici da identificare, appunto perché richiedono caratterizzazione genetica del ceppo virale, di certo non routinaria nella pratica clinica. Ma necessaria. Il sequenziamento per l’identificazione di una nuova variante nel giro di 90 giorni dalla precedente infezione, ricordano gli autori di un report appena pubblicato dai Centers for disease control and prevention (Cdc), serve a escludere una lunga permanenza nel corpo del primo coronavirus preso.

Il report in questione si riferisce a 10 persone infettate con la variante omicron dopo una precedente infezione con la variante delta (la maggior parte non vaccinati, giovanissimi). E dice essenzialmente una cosa: quando casi di reinfezione avvengono in un così ristretto periodo di tempo, il messaggio è che l’immunità indotta dall’infezione con una variante non basta a proteggere da altre. Pur con tutti i limiti: parliamo di appena 10 casi, nulla di fatto, e molti non vaccinati.

Reinfezioni con Omicron – Ma la capacità di omicron di eludere il sistema immunitario già preparato contro Covid-19 è qualcosa di cui si parla sin dagli inizi della sua comparsa nello scenario globale e confermata da diversi studi. Qualcosa che si discosta da quanto osservato in precedenza, ovvero da una buona protezione da infezioni post-vaccino o post-malattia nei confronti di diverse varianti. Come riassumeva poche settimane fa un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine, aver avuto Covid-19 in passato forniva una buona protezione contro le reinfezioni da variante alfa, beta e gamma (intorno al 90%), che scendeva al 56% però contro la variante omicron.

Fin troppo secondo alcuni per omicron, dalle forte capacità immuno-evasiva e di per sé più infettiva, e ben più bassa secondo altri: non più del 19%, seppur in contesti diversi. Stabilire delle percentuali e dei tempi di reinfezione ragionevolmente certi non è infatti facile, perché i dati vengono da popolazioni diverse, con misure preventive diverse, e così esposizioni al virus e vaccinazioni differenti.

Quel che si può dire è che il calo della protezione nei confronti di nuove varianti è qualcosa di atteso – così come lo scemare della protezione immunitaria nel tempo, che concorre al problema – specialmente se le nuove varianti si discostano molto da quelle precedenti. Ma anche quando non si discostano così tanto il rischio non scompare. È il caso delle sottovarianti di omicron (che comprende omicron e tutti i lineage correlati, come la variante BA.2), per le quali sono stati riportati casi di reinfezione, a distanza di meno di 60 giorni. Le analisi condotte per la popolazione danese hanno infatti mostrato che è possibile reinfettarsi a distanza di poco tempo con diverse sottovarianti di omicron (nella maggior parte dei casi in giovani non vaccinati, senza casi gravi), sebbene fosse un’eventualità da considerarsi rara. [wired.it]

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