Marsala – Il marsalese sa bene che una cosa sono le parole e un’altra cosa sono le “palore” (con la elle). Con le parole il cittadino lilibetano ha un rapporto esagerato: troppo poche (‘a megghiu parola è chiddra chi un si dice) o troppo assai.
Le “palore” sono invece vocaboli del tutto speciali e raggruppano gran parte del dizionario marsalese, sintetizzando con un unico termine, appunto, la portata dell’assalto verbale di cui il cittadino di Marsala è capace nei confronti del suo interlocutore. E l’offesa si misura in termini di “palore”. Il che vuol dire che un ragionamento non può mai essere aggressivo e non può offendere: “Ma picchì si sta comportanno na ‘sta manera? Non è chi ci risse palore!”.
Il ricorso a un termine sintetico ha sicuramente origini scolastiche. Non si poteva certo accusare all’insegnante, il compagno che aveva appena finito di dirti “figghiu di butt@na”, citando pari pari la frase spregiativa. Così si ricorreva a una sintesi: “Prefessù, Zichittella mi dice palore su mio padre e su mia madre”.
La “palora” viene spesso addirittura minacciata: “Salvatò, dicci a tò matre chi si un na finisce di ittare acqua ‘na strata, ci vaio e ci dico palore”. Lo sviluppo delle “palore” può raggiungere complessità che passa dal tragico al ridicolo. Nel settore “cornuti” troviamo: “U cervo n’confronto a tia è tignuso”; “Sei più cornuto di un camion di babbaluci”.
Nel settore “escrementi” emerge: “La differenza tra te e un tir di merda e che ‘u tir avi i rote e tu hai i scaippe”. Gli insulti che coinvolgono la discendenza sono irripetibili ma vale la pena sottolineare che, quasi sempre, riguardano le madri piuttosto che i padri e che tendono a sottolineare le qualità erotiche delle stesse.
Nel caso della madre (degli altri) si va giù pesante e le si attribuisce l’intero repertorio del Kamasutra. Nei confronti dei padri, invece, quasi mai viene messa in discussione l’identità sessuale. Insomma, difficilmente un padre è “arruso”. Verso i padri si punta alla mortificazione della sua condizione di capo famiglia, sia in termini di marito di “moglie butt@na” (bersaglio preferito), sia soprattutto in termini di capo del nucleo familiare. In questo caso gli vengono attribuiti i mestieri più infimi: viddrano, munnizzaro ecc… Ma poiché i tempi cambiano, nessuno oggi si sogna di dire al compagno di banco: “Tuo padre è un munnizzaro!”.
Difficilmente sentirete invece l’accusa “delinquente”. Dalle parti nostre è quasi un “mestiere” che si fa sotto la copertura di mille giustificazioni, della serie: “La colpa è della società”. Il che, ahimè, è molte volte non lontano dal vero.
Ma se le “palore” sono pietre, e in quanto tali sono piuttosto pesanti, spesso sono anche decisamente leggere. Andate a un anniversario di matrimonio e partecipate alla festa. Se alla fine sarà il momento del karaoke, la zia Terina romperà il ghiaccio, impugnerà il microfono (ingrassata quanto Platinette) e nel tripudio generale, imitando Mina, intonerà: “Palore, palore palore…”.
Senza palore, Enzo Amato